Skip to Content
image description

Stiamo davvero “rubando” le strisce alle puzzole? 

La banda bianca sul manto nero da sempre caratterizza questi animali tipici del continente americano. Un nuovo studio, però, ha messo in luce come questa peculiarità sia soggetta a mutazioni. E la colpa è anche dell’uomo.

di Redazione

Completamente nera, con due strisce perfettamente simmetriche di colore bianco che vanno dal muso alla coda. È questa l’immagine comune della puzzola americana impressa nell’immaginario collettivo. Estetica ormai consolidata del corso dei secoli che però sembra poter essere non così cristallizzata come il senso comune potrebbe far pensare.  

Ma andiamo con ordine. Le striature di questi animali non sono casuali, hanno, infatti, un preciso scopo: avvisare i predatori della loro arma di difesa, ovvero una sostanza maleodorante che spruzzano quando si sentono minacciate.  

In gergo tecnico questo ricorso ai colori come strumento di deterrenza viene definito aposematismo. Si tratta, infatti, della colorazione di una parte più o meno estesa del corpo di un animale a fini di avvertimento. E si riscontra in animali che risultano tossici o velenosi, oppure hanno semplicemente un sapore sgradevole per le specie che potrebbero utilizzarli come nutrimento. E la puzzola americana è proprio il simbolo dell’aposematismo tra i mammiferi. Il ricercatore Ted Stankowich, ecologo evoluzionista comportamentale presso l’Università Statale della California, però, ha notato che il manto di questi animali non è così omogeneo come l’immaginario collettivo ce lo restituisce. Esistono infatti strisce meno larghe, non omogenee e addirittura esemplari tutti neri. 

Il suo studio, semplificando la questione, parla così di “strisce mutevoli”. Questo succede perché sebbene le puzzole siano dotate di ghiandole in grado di spruzzare secrezioni sulfuree maleodoranti sui bulbi oculari dei predatori, attualmente hanno sempre meno predatori naturali.  

Leoni di montagna, coyote, giaguari e linci rosse, sono, infatti, sempre meno soprattutto a causa dell’uomo. E il team di Stankowich, dopo aver analizzato circa 750 pellicce differenti, ha collegato queste variazioni proprio al rischio di predazione. Dove è maggiore «si osserva un’uniformità molto maggiore del manto: nero con due lunghe strisce che attraversano il corpo», spiega Stankowich. Dove i rischi sono minori, invece, si verifica una minor selezione di questo carattere “salvavita”, con il risultato di favorire il passaggio da una generazione all’altra anche di strisce meno marcate. 

«Non possiamo arrivare a dire che sia l’uomo la causa diretta di questa variazione, attraverso l’eliminazione dei predatori”, conclude Stankowich, «ma sicuramente non siamo di aiuto». 

(Foto d’apertura: IPA)

Copyright © 2024 – Tutti i diritti riservati