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Yaki e i cani da ricerca in valanga. Il podcast dedicato agli angeli custodi d’alta quota  

Questi quattrozampe sono l’elemento chiave nel salvare vite. Velocissimi rispetto a un uomo, fiutano un corpo fino a una profondità di oltre due metri e con il poco tempo a disposizione queste sono doti insostituibili. Ascoltiamo, insieme, le loro storie.

di Alessio Pagani

Se ti ritrovi sepolto da due metri di detriti innevati loro sono la tua unica speranza. Soprattutto se non sei in possesso di un localizzatore “Arva” (Apparecchio di ricerca in valanga) e il rischio slavine è marcato, come capita diverse volte ogni anno. Anche in questa stagione. Se fini­sci sotto la neve, solo questi cani, insieme con i loro conduttori, possono restituirti alla luce.   

Comunemente definiti “cani da valanga”, sono gli angeli custodi d’alta quota. Animali speciali, formati per intervenire nelle emergenze. Dotati di forte mo­tivazione e grande temperamento, lavorano in zone impervie, con temperature proibitive, ma restano sensibili ed empatici. Vivono in simbiosi con i loro conduttori e insieme fanno sacrifici: investono tempo ed energie per migliorare, continuamente. E san­no che, quando indossano la pettorina, inizia il lavo­ro. E non smettono di cercare «fino a quando non li fermiamo», raccontano i loro compagni umani del Corpo nazionale del Soccorso alpino.  

In quello che fanno sono unici. La formazione di questi specialisti a quattro zampe inizia all’età di due mesi. Ma entrano in servizio solo a due anni e mezzo e continuano l’addestramento finché sono operativi. Al loro fianco si trovano istruttori esperti che ne seguono il percorso giorno dopo gior­no, con prove ed esercitazioni mensili e corsi setti­manali. Centinaia e centinaia di ore di lavoro e prove l’anno. E continue verifiche. Questi cani sono adde­strati ad affinare l’olfatto, a spostarsi con l’elisoccor­so, a calarsi dall’alto insieme con il proprio compagno. È questa intesa viscerale tra uomo e cane a rivelarsi de­terminante.   

Del resto è da più di cinquant’anni che i cani da valanga sono operativi in quota. Nel tempo sono mutate le tecni­che di addestramento, ora basate esclusivamente sul rinforzo positivo (che consiste nel premiare con il gio­co o il cibo gli obiettivi centrati) e le razze impiegate: più pastori belga, grigioni, golden retriever, labrador e border collie. La loro presenza resta insostituibile. Velocissimi rispetto a un uomo, fiutano un corpo fino a una profondità di oltre due metri e con il poco tempo a disposizione questa è una dote insostituibile.   

«Se viene estratta entro i quindici minuti dal distacco della valan­ga» spiegano dal Soccorso alpino, «la persona travolta sopravvive nel 90 per cento dei casi. Percentuali che poi calano notevolmente con il passare del tempo». Ecco il motivo del successo della Scuola nazionale unità cinofile da valanga. Con la sua storia lunga ed affascinante, nata da una felice intuizione.  

È l’aprile 1960 quando, nei dintorni della cittadi­na di Solda in Alto Adige, Mohrele, il cane meticcio di una guida alpina, comincia a mostrare segni di in­quietudine mentre il suo padrone lavora vicino a una valanga. Così l’uomo si convince a scavare nel punto indicato: lì ritrova il corpo del parroco cercato inva­no per giorni da numerosi volontari. È la scintilla: sei anni dopo, nel ’66, a Solda inizia il primo Corso na­zionale per cani da valanga. Da allora l’impegno del soccorso alpino nel sostenere un percorso così impe­gnativo rende possibile avvalersi dell’insostituibilità del binomio uomo-cane che, nonostante l’avanzare della tecnologica, è l’elemento chiave nel salvare vite.   

Cani speciali, affiancati da uomini speciali. Che non amano essere definiti “eroi”, perché sono profes­sionisti in allenamento costante. E nel soccorso su va­langa niente è lasciato al caso. Gli umani ci mettono le competenze, l’addestramento e la reperibilità continua, i cani il fiuto e la potenza delle zampe. Gli escursionisti e gli sciatori, però, devono sempre metterci la testa.  

(Foto d’apertura: @cnsas_official)

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