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Nelle isole di rifiuti di plastica c’è vita animale

Piccoli animaletti sono riusciti a infiltrarsi nelle enormi distese che galleggiano nell’oceano e lo inquinano, fino a fondare un vero ecosistema.

di Lorenzo Sangermano

Negli oceani che separano i continenti, al di sopra delle profondità marine, fluttuano isole dalle enormi proporzioni e per nulla naturali. Queste infatti non sono di terra, bensì di plastica: distese di spazzatura di oggetti non biodegradabili, come sacchetti e bottiglie, che testimoniano l’ormai devastante livello di inquinamento ambientale. Sconfiggendo l’iniziale senso di smarrimento, alcune specie marine si sono comunque adattate e, dentro questi agglomerati di rifiuti, hanno trovato anche una nuova casa.

Attraverso le correnti marine, i 2,7 milioni di tonnellate di scarti di plastica che l’uomo produce ogni anno vengono sospinti verso punti comuni  dove hanno la tendenza ad agglomerarsi e a muoversi come grandi masse.  La più grande isola di plastica si trova al largo della California, la Great Pacific Garbage Patch, e ha una dimensione che si pensa oscilli tra i 700 mila e i 10 milioni di chilometri quadrati. In pratica un’estensione che varia dalla grandezza della Penisola Iberica a quella degli Stati Uniti.

300 mila tonnellate di plastica ogni anno rimangono a galla, mentre il resto ritorna a a riva o si deposita sui fondali dell’oceano: le plastiche più fini sotto il pelo dell’acqua si mischiano con il plancton, uno dei prodotti alla base della catena alimentare negli oceani. Ciò permette alle micro-plastiche, molto difficili da raccogliere e recuperare, di legarsi con componenti chimici e organici fino a raggiungere i nostri piatti. Tanto che, secondo una ricerca australiana, solo bevendo acqua in una settimana ne ingurgiteremmo fino a 5 grammi.

Secondo un nuovo studio dei biologi marini del Centro di ricerca ambientale Smithsonian, in questa confusione di rifiuti ha trovato casa un vero ecosistema. In una convivenza obbligata con questo strato galleggiante, gli animali marini hanno imparato ad adattarsi e a entrarci in confidenza. Sul 90% dei reperti analizzati, infatti, i ricercatori hanno riscontrato la presenza di specie viventi. A sorprendere è stata la scoperta che circa il 70% degli esemplari catalogati, soprattutto molluschi e artropodi (invertebrati che si adattano a nuovi habitat), provengono dalle coste, dove normalmente vivono. Gli studiosi hanno così decretato la presenza di numerose colonie definite “neopelagiche”, che sono state cioè in grado di adattarsi al mare aperto. All’interno delle isole galleggianti, sulle reti da pesca i nuovi inquilini hanno trovato una dimora stabile. Altri, come meduse e crostacei, si sono persino riprodotti con lontani “parenti” dando origine a nuove specie animali.

(Foto d’apertura: IPA)

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